Mi accosto a Marcello Scarano con la discrezione e l’ottica dell’intenditore d’arte dialettale o, se vogliamo, del modesto scrittore attento alle vicende umane e artistiche della propria terra, scandagliate più con gli strumenti impropri dell’intuizione e dell’ emotività che con adeguati mezzi tecnici di conoscenza. A una più capillare introspezione, a un esame radiografico specialistico delle fasi di evoluzione della pittura di Scarano ha provveduto Alberindo Grimani, che, da infaticabile curatore di mostre, vive immerso negli acri sentori e nelle confabulazioni dotte dei “vernissages”. I miei incontri con l’artista molisano furono sempre fugaci, ma intensi, amorevolmente agevolati dalle sorelle Isotta e Maria, oggi custodi gelose della pinacoteca di casa Scarano. Più di una volta, intorno agli anni ’50, ebbi la ventura di raggiungere, attraverso una serie interminabile di rampe, più confacenti alla struttura di una torre campanaria che di una comune abitazione privata, lo studio campobassano di Marcello Scarano, aereo e naturale come un nido, sospeso tra un allegretto di comignoli e di allodole: da lassù si poteva contemplare l’aperto pianoro sottostante, ch’era tutto uno scatto, uno scambio rapido e sapido di luci e colori, dal violaceo velario dei monti ai morbidi tappeti dei verzieri, dal pallore degli oliveti alla solare spruzzaglia delle ginestre, dal biancore delle pietre del Castello che signoreggia la vallata, l’antico “campus vassallorum”, al rosso nitore delle malte dei villini che sembrano sospesi a crespe chiome di pini: una vera e propria tavolozza naturale a disposizione del pittore. In quel nido Scarano lavorava solitario, quando non montava il cavalletto nelle radure dei boschi di Trivento o di Castelmauro o in altre località campestri o marine della Frentania e della Pentria; interrompeva il suo lavoro solo per rapide passeggiate lungo la “croisette” del Corso Vittorio Emanuele; lo si incontrava sempre solo, con la sua trasandatezza aristocratica di un estroso, sfuggente bohemien sempre pronto alla battuta salace e divertevole, che gli rischiarava gli occhi profondi e fuggitivi. Viveva apparentemente isolato dai centri direzionali della cultura nazionale, ma consapevole dei problemi dell’arte, ai quali sapeva dare un suo apporto critico originale e motivato. Giuseppe Jovine: Dalla lettera inviata dal Prof. Giulio Carlo Argan a Giuseppe Jovine: Caro Jovine, ti ringrazio per avermi fatto conoscere con il tuo bel saggio l’opera del pittore Marcello Scarano. Il 2011 ha segnato i 110 anni dalla nascita di Marcello Scarano (Siena 1901- Campobasso 1962), il più importante pittore molisano del Novecento. I genitori di Marcello Scarano erano nativi di Trivento, trasferiti a Siena dove il padre Nicola, professore di letteratura, aveva ottenuto l’insegnamento. Nelle sue tele Scarano ha dipinto spesso le campagne e i paesaggi dei nostri territori e senza dubbio possiamo affermare che è stato un pittore con la Valle del Trigno nel cuore. Di lui Giuseppe Jovine [2], grande poeta e scrittore nativo di Castelmauro, racconta che ”lavorava solitario, quando non montava il cavalletto nelle radure dei boschi di Trivento o di Castelmauro o in altre località campestri o marine della Frentania e della Pentria“. Scrisse Jovine che “lo si incontrava sempre solo, con la sua trasandatezza aristocratica di un estroso, sfuggente bohemien sempre pronto alla battuta salace e divertevole, che gli rischiarava gli occhi profondi e fuggitivi. Viveva apparentemente isolato dai centri direzionali della cultura nazionale, ma consapevole dei problemi dell’arte, ai quali sapeva dare un suo apporto critico originale e motivato“. Dopo l’infanzia e l’adolescenza a Siena, nel 1918 torna a Campobasso dove frequenta i corsi di pittura di Nicola Biondi e comincia a partecipare a mostre. Nel 1922 a Roma frequenta gli artisti e i luoghi di ritrovo degli intellettuali. La prima mostra personale è del 1926, a Campobasso, seguita dalla seconda nell’anno successivo. Nell’ambiente artistico campobassano conosce e frequenta Amedeo Trivisonno. Nel 1928 si trasferisce a Napoli dove tiene la terza mostra personale, frequenta l’ambiente artistico napoletano.
Nel 1930 partecipa alla mostra del Sindacato fascista di Belle Arti campano, poi alla stessa in Abruzzo, quindi espone a Firenze. Premi e riconoscimenti diventano sempre più frequenti, e frequenti sono anche le sue partecipazioni ad esposizioni in Italia (Roma, Cremona, Milano, poi ancora Napoli, Francavilla a Mare) e all’estero (Hannover). Nel 1942 è invitato alla XIII Biennale di Venezia.
Produzione artistica. Un numero considerevole di opere della cospicua produzione dell’artista è rappresentato dai ritratti (e autoritratti) soprattutto familiari (la sorella Silvia in particolare), che coprono il primo ventennio di attività. Un altro tema, profondamente caro all’artista, è il mondo contadino molisano, sia con i personaggi che con il paesaggio. Paesaggi molisani, Campobasso con il castello Monforte, Trivento con la valle del Trigno e i casolari, le Mainarde, Termoli e il mare sono temi ricorrenti in tutto l’arco della sua produzione. Dal Piccolo pastore (1925) alla Vallata del Trigno (1923), dal Mietitore (1930) alla Trebbiatura (1935), dal Contadino (1935) alla Raccolta del Grano (1940) con cui ottiene a Cremona il premio speciale “Triennale di Milano” e che mostra all’esposizione di Hannover. Altro filone a lui molto caro è il sacro, affrontato soprattutto nel decennio dal 1930 al 1940, con I Pellegrini, il Mese Mariano.